10/01/10

Tragedie ed eroi, quando lo Sport decise di non fermarsi

La nazionale di calcio del Togo crivellata di proiettili, giocatori morti, e una Coppa d’Africa che va avanti pur con il lutto a rotolare sul prato assieme al pallone. Non è la prima volta che lo sport internazionale decide di non fermarsi. Lo fece, per un solo giorno, dopo il massacro di Monaco, durante i giochi del 1972 in cui 11 atleti israeliani persero la vita, uccisi da un commando di terroristi palestinesi, in quella che viene catalogata come la pagina più nera dello sport del secolo scorso. Una tragedia lontana nel tempo e per questo qualche volta troppo in fretta dimenticata.

Non come il ricordo della strage dell'Heysel ancora vivo nel cuore e nella mente di noi italiani: una giornata di festa tramutatasi in un giorno di vergogna per molti e di morte per 32 italiani che quel 29 maggio 1985 non videro mai la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Una carica di tifosi inglesi, la fuga di quelli italiani e la totale incapacità di chi avrebbe dovuto provvedere alla sicurezza. Persone schiacciarono persone, nell'aria un senso di attonita angoscia non per una guerra, non per un attentato, ma nell'attesa di una partita di calcio che fu comunque giocata. Una tragedia che non funse da monito e che ebbe la sua vergognosa replica all'Hillsborough Stadium a Sheffield, durante la finale, questa volta sì sospesa, della FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest il 15 aprile 1989. Le vittime furono 96.

Il calcio è pieno eventi luttuosi rispetto ai quali si è agito diversamente. La morte di Vincenzo Paparelli, durante un derby Lazio-Roma del 28 ottobre '79, colpito da un razzo lanciato dalla curva opposta, o il decesso di Gabriele Sandri, tifoso laziale, l'11 novembre 2007, ucciso da un proiettile sparato da un agente in un'area di servizio lungo l'A1, non sono bastati a fermare tutto. Ciò accadde, invece, dopo l'omicidio dell'ispettore di polizia Filippo Raciti, morto fuori dallo stadio Massimino di Catania per un colpo al fegato ricevuto da un tifoso e per il quale la serie A e le istituzioni decisero di riflettere a fondo.

A volte accade che, invece, dalle tragedie nascano miti, leggende che alleviano il dramma insito nell'ineluttabilità della morte, proprio perché si è deciso che lo sport deve andare avanti. Una tragica fatalità si portò via Ayrton Senna in un Gp che, secondo molti, non si sarebbe nemmeno dovuto correre a causa della morte, per incidente, in prova, il giorno prima del pilota austriaco Roland Ratzenberger. E invece, il circus non si fermò, la gara prese il via e quell'ultimo giro del brasiliano divenne leggendario ancor più delle sue vittorie. Un botto pazzesco, un casco frantumato, la bandiera austriaca (con la quale avrebbe reso omaggio al collega scomparso il giorno prima) intrisa di sangue, le lacrime di un giovane Schumacher in conferenza stampa, poi il silenzio. Come quello che accompagnò il successo, sempre a Imola, del pilota tedesco che riuscì a correre e a vincere nonostante la morte della mamma Elisabeth avvenuta soltanto 24 ore prima. Quella volta la commozione di fine gara mostrò una sensibilità non riconosciuta a Schumi nel momento in cui disse di voler correre nonostante tutto.

Eppure gli eroi per antonomasia nella lunga letteratura sportiva restano quelli che giocarono la "partita della morte" il 9 agosto 1942 allo stadio Zenith di Kiev. Calciatori veri di Dinamo e Lokomotiv contro ufficiali nazisti. Fucili puntati e una sola via di scampo e nemmeno certa: la sconfitta. In undici decisero di vincere, ma in nove persero...la vita.

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